Perché, a fronte della comparsa negli ultimi 20 anni di diversi virus potenzialmente pandemici, l’allarme generato dalla comparsa della Covid-19 è stato sottovalutato?
Come hanno risposto i sistemi sanitari e come si può affrontare la pandemia in corso?
11 Aprile 2020
Ernesto Burgio, medico pediatra, è esperto di epigenetica e biologia molecolare. Presidente del comitato scientifico della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) e membro del consiglio scientifico di ECERI (European Cancer and Environment Research Institute) di Bruxelles. Con lui abbiam rivolto uno sguardo generale sulla genetica del virus di Covid-19, sulla risposta del sistema immunitario dell’uomo e sui fattori ambientali, economici e sociali che ne possono favorire la diffusione o il contenimento.
Che cos’è questo virus? Cos’è un allarme pandemico e perché è stato sottovalutato?
Per affrontare una pandemia occorre considerare tre fattori. Il primo è il virus: bisogna chiedersi se questo virus è veramente pericoloso, come dicono alcuni, oppure la sua pericolosità è stata sopravvalutata, come continuano (purtroppo) ad affermare altri. Il secondo fattore l’organismo del nuovo ospite, cioè l’uomo, con la reazione difensiva del suo sistema immuno–competente e immuno-infiammatorio. Il terzo sono in senso lato tutti quei determinanti e fattori ambientali, ivi comprese le condizioni del sistema sanitario.
Il fatto che probabilmente dai primi di dicembre o forse anche prima sia partito un virus veramente pericoloso lo si è capito, con un po’ di ritardo, intorno alla metà di gennaio. Questo, a ogni modo, avrebbe consentito di fare di più nella preparazione del sistema e degli operatori sanitari e soprattutto nella loro protezione, cosa che purtroppo in Occidente non è avvenuta.
Ormai si può facilmente ricostruire la sequenza genetica dei virus e sappiamo almeno dalla fine di gennaio che si tratta di un virus molto pericoloso: un potenziale pandemico appunto. SARS-CoV2 è un Coronavirus, ma soprattutto è un virus a RNA, molto instabile, che muta cioè continuamente. La sequenza base, la cosiddetta sequenza master del virus, è stata immediatamente confermata dall’istituto Pasteur dopo che già i cinesi l’avevano pubblicata. Abbiamo subito visto che questa sequenza è per il 96% analoga, dunque quasi uguale, alla sequenza di un coronavirus del pipistrello, con una piccola variazione molto significativa. Questo virus ha otto mutazioni nel punto chiave, cioè nella sequenza genica, nell’RNA che codifica per la proteina spike che aggancia i recettori ACE-2 delle vie aeree superiori. Per di più due di queste mutazioni sono nel dominio S2 della proteina e permettono al virus di diffondere meglio da una cellula all’altra. Questa cambiamento rispetto al coronavirus del pipistrello e rispetto anche in parte al coronavirus del 2002-2003 della prima SARS, ha probabilmente fatto la differenza, permettendo a questo virus di acquisire quelle grandi capacità da un lato di contagio e dall’altro di virulenza che lo contraddistinguono. Chi aveva avuto l’opportunità e la competenza per studiare queste sequenze, lo aveva capito almeno alla fine di gennaio. Perciò, quando a febbraio ci sono state le prime polemiche – perché perfino tra gli esperti c’è stato chi ha detto di non esagerare, dal momento che si trattava di un banale coronavirus parainfluenzale o simili valutazioni del tutto errate, almeno in Italia – abbiamo cercato di far chiarezza in ogni modo. Ma non è facile, soprattutto arrivare al livello politico dove si prendono le decisioni.
A posteriori, in Italia a nostro parere il virus era già presente a fine di dicembre. Le molte polmoniti atipiche, resistenti a qualsiasi terapia e con molti decessi indicano come il virus circolasse già da tempo, anche se è difficile da appurare ormai.
Come mai non ce ne si è accorti?
C’è stata una serie di errori ma anche una comunicazione tardiva da parte della Cina. In Cina però il 20 di gennaio, quando hanno capito la pericolosità, hanno fatto quello che in questi casi bisogna fare, cioè il lockdown. Hanno chiuso immediatamente l’intera regione di Hubei, 57 milioni di abitanti e 30 città. Hanno predisposto non solo il triage e usato tamponi per fare diagnosi e verificare così il numero dei contagiati, ma hanno anche monitorato il territorio, isolando tutte le persone che erano venute a contatto con i contagiati. Questo è stato fondamentale. Poi hanno attuato quello che in ogni pandemia è di massima importanza: hanno evitato che il virus entrasse negli ospedali. Hanno addirittura costruito aree sanitarie e strutture ospedaliere nuove dedicate solo alla Covid-19.
In Italia, invece, che il virus fosse pericoloso lo si era capito solo tra gli esperti e lo si è sottovalutato. Così ha potuto dilagare. Nelle regioni del Nord Italia, dove ha potuto anche acquisire in qualche modo il dominio degli ospedali, il dramma è stato inevitabile.
Tuttavia, non si è trattato di qualcosa di imprevisto: dal 1997, cioè dall’improvviso “salto di specie” di un virus influenzale (H5N1) dal serbatoio aviario degli uccelli migratori (che sappiamo da 50 anni essere portatori dei virus influenzali) all’uomo e dalla conseguente morte di un bimbo e poi di decine di persone, sappiamo che il temuto fantasma di una pandemia era alle porte. Sappiamo da allora che soprattutto in certi luoghi, probabilmente i mercati e gli allevamenti in particolare del sud asiatico ma non solo, stanno emergendo ceppi molto virulenti e potenzialmente contagiosi. Quindi l’allarme pandemico è per così dire incombente dal 1997 e soprattutto dal 2002, 2003 e 2005, quando ci sono stati alcuni cluster drammatici da H5N1 (la cosiddetta “influenza aviaria”) e poi dal famoso outbreak da Coronavirus n° 1 della SARS. La comunità scientifica lo ha in parte comunicato a livello di letteratura e avrebbe potuto e dovuto essere più ascoltata, a livello politico. In Occidente la si è ascoltata molto poco. In Oriente, sia per esperienza sia per capacità di affrontare queste problematiche, sia perché appunto c’era stata già la SARS nel 2002/2003, tutti, soprattutto in Cina ma anche a Taiwan, a Hong Kong, in Giappone e in parte in Corea, sebbene con un minimo di ritardo hanno saputo immediatamente mettere in atto le misure più efficaci. La regola assoluta è: una pandemia si ferma sul territorio. Questo è il principio di base. È il golden standard, se vogliamo: non si deve far entrare il virus negli ospedali.
Ha accennato al fatto che il virus sta girando in Europa da dicembre e che la filogenetica del ceppo italiano è stata ricostruita in ritardo…
Normalmente per fare una diagnosi di presenza del virus nelle vie aeree si usa un tampone e una reazione che si chiama PCR, che serve per amplificare l’RNA. In laboratorio quell’RNA può essere studiato in maniera diversa, molto più approfondita: si ricostruisce la sequenza e si vede se sono intercorse delle mutazioni particolari. Confrontando le sequenze di alcuni pazienti italiani – una cosa che paradossalmente non eseguita immediatamente in Italia, ma all’estero, per esempio in Brasile – si è visto che il virus che circolava in Lombardia, diciamo ai primi di febbraio, era un virus che aveva già acquisito alcune modifiche che facevano pensare che avesse già compiuto un lungo giro dalla Cina, attraverso la Finlandia, la Germania, addirittura l’Australia e altri paesi. Per una serie di motivi difficili da identificare, a fine gennaio o primi di febbraio in Italia si era creata una grande circolazione del virus ma quest’ultimo era già arrivato probabilmente in tutto il mondo.
È uno dei tanti problemi sottovalutati: le condizioni del pianeta fanno sì che un virus possa compiere il giro del mondo in una settimana. Non è come nel 1918 e tutto sommato neanche come nel 1957.
Le sequenze sono state inoltre studiate in modo tardivo, non dico superficiale, ma sono rimaste in una nicchia. Chi aveva l’abitudine, la capacità, l’esperienza, diciamo anche la competenza per andarle a guardare, lo ha fatto. Dopodiché il tentativo di andare a parlare con i colleghi negli Istituti fondamentali, nei Ministeri, lo abbiamo compiuto, ma lì non c’è stata proprio la competenza sufficiente, perché molto spesso lì (almeno in Italia) ci sono piuttosto funzionari esperti nella sanità diciamo tradizionale, mentre sono pochi quelli che hanno esperienza di questo tipo di situazioni. L’ultima grande pandemia in Europa è stata nel 1957; nel 1968 ce n’è stata una minore. Si è dunque persa la memoria, proprio lì dove si dovrebbe avere la capacità di coordinare un intervento efficiente fin dall’inizio. Questo è stato il grande problema in Occidente rispetto all’Oriente.